Teatro

NAPOLI: DEMETRIO E POLIBIO AL TEATRINO DI CORTE

NAPOLI: DEMETRIO E POLIBIO AL TEATRINO DI CORTE

Il sipario si alza su un teatro che risuona degli ultimi applausi tributati a un’imprecisata rappresentazione. Ma il punto di vista non è quello frontale consueto. Lo spettatore è idealmente collocato nel retropalco, alle spalle degli esecutori, e perciò può osservare ciò che accade dopo la conclusione dello spettacolo: un viavai di facchini, operai e assistenti che rassettano, riordinano, si scambiano commenti e saluti e pian piano si dileguano fino a lasciare completamente vuoto e in penombra lo spazio poco prima saturato della performance. È in questa dimensione sospesa che si svolge l’azione ideata da Davide Livermore per “Demetrio e Polibio” di Rossini (nata per Pesaro, la sua regia è stata ripresa al Teatrino di Corte di Napoli da Alessandra Premoli). La scena silenziosa diventa un contenitore magico che si popola di cantanti-fantasmi e viene animato da una suggestiva alternanza di ombre e facelle, riflessi e bagliori (le luci recano la firma di Nicolas Bovey). L’azione del “dramma serio per musica” diventa una specie di sogno nel/del teatro, nel quale ogni interprete ha un sosia-mimo che ne raddoppia, integra o esplicita i gesti e le posture, così da moltiplicare i piani dell’azione e creare specularità fantasiose e sorprendenti. La soluzione metateatrale adottata da Livermore appiattisce la dialettica interno/esterno e pubblico/privato, ma genera una speciale intimità notturna che risulta appropriata ed efficace specie nei momenti di più intensa espressione (penso in particolare al duetto “Questo cor ti giura amore” nell’atto primo, reso con grazia soffusa).
Le scelte registiche ben si sposano con la splendida musica creata dal giovanissimo Gioachino nel 1805, nella quale misure ancora tardo-settecentesche convivono con gesti e stilemi destinati a lunga fortuna nella successiva produzione del maestro pesarese. In “Demetrio e Polibio” c’è già tutto Rossini, ma non c’è ancora la febbre capace di trasmettere una pulsazione inesorabile al flusso musicale, né la spirale dell’automatismo che investe e trascina le cellule vocali e strumentali fino a trasformarle in pura energia sonora. I numeri d’assieme sono costruiti con un gusto spiccato per la simmetria, mentre nei brani solistici, con o senza apporto corale, le melodie sfoggiano una purezza incontaminata che richiede timbro adamantino e notevole agilità.
Tali doti non difettano al quartetto impegnato sul palcoscenico napoletano, costituito dal tenore Yije Shi (Demetrio senior-Eumene), dal basso Dario Russo (Polibio), dal contralto Victoria Yarovaya (Demetrio junior-Siveno) e dal soprano Lyubov Petrova, che nelle ultime due recite sostituisce Jessica Pratt (Lisinga). I maggiori applausi vanno a quest’ultima interprete, assai brava nel rendere sia la delicatezza, sia il piglio quasi amazzonico che caratterizzano il suo personaggio. Più che apprezzabili anche le voci virili, un po’ meno brillante la Yarovaya.
Sul podio Alessandro De Marchi, specialista di cose settecentesche, che con la sua lettura accentua i tratti neoclassici della composizione rossiniana e le conferisce nitore ed equilibrio. Buona la prestazione dell’orchestra, con i legni e gli ottoni chiamati in più luoghi a impegnativi interventi solistici. Anche il coro tutto maschile, capitanato da Salvatore Caputo, svolge il proprio compito con diligenza. Una sola annotazione: vista la datazione della partitura, perché nei recitativi semplici, al posto del clavicembalo (su cui Riccardo Fiorentino improvvisa anche troppo liberamente), non si è scelto di utilizzare un più congruo fortepiano?